Ogni giorno, in ogni istante, l’essere umano è chiamato a compiere delle scelte. Alcune sono quasi invisibili; altre determinanti, capaci di modificare significativamente il corso degli eventi.
Non a caso, in psicologia del lavoro e in sociologia organizzativa, il processo decisionale – o decision making – è considerato uno degli snodi fondamentali per comprendere le dinamiche individuali e collettive nei contesti professionali.
Nel mondo aziendale, infatti, la decisione non è solo un atto razionale: è una responsabilità, un rischio, un’opportunità ma anche un atto profondamente umano, influenzato da logiche razionali, esperienze pregresse, automatismi cognitivi e, spesso, da pressioni temporali e culturali.
Con questo articolo ci proponiamo di esplorare il concetto di decision making nel lavoro, andando oltre la semplice definizione di “prendere decisioni”. Intendiamo, infatti, analizzare in che modo le persone decidono, quali meccanismi psicologici intervengano nei processi decisionali e come si possa, anche attraverso la formazione, imparare a prendere non solo decisioni, ma buone decisioni.
La natura trasversale del decision making
Iniziamo con il chiarire che il decision making non è un’attività riservata alle élite manageriali o alle figure dirigenziali: riguarda ogni lavoratore, in ogni contesto. È una competenza trasversale, una costante della vita umana. Dal piccolo gesto quotidiano fino alla scelta strategica in una riunione di alto livello, il processo decisionale ci accompagna in ogni ruolo, funzione e livello organizzativo.
Ma come prendiamo queste decisioni? Le affrontiamo in modo razionale o ci lasciamo trasportare dall’istinto? Le neuroscienze cognitive e la psicologia comportamentale ci insegnano che, in realtà, agiamo in modo molto più complesso.
Uno degli autori più influenti in questo ambito è Daniel Kahneman, psicologo e premio Nobel per l’economia, che ha sviluppato, insieme a Amos Tversky, una teoria estremamente utile per comprendere come decidiamo: la teoria dei due sistemi cognitivi.
Secondo Kahneman, il cervello umano opera attraverso due modalità principali:
- Sistema 1: veloce, intuitivo, automatico, basato su euristiche e schemi appresi. È il sistema che ci permette di reagire rapidamente spesso in modo efficace, ma che può condurre anche a errori sistematici (i cosiddetti bias).
- Sistema 2: lento, riflessivo, razionale. Interviene quando è necessario uno sforzo cognitivo maggiore, ad esempio per risolvere un problema complesso o prendere una decisione ponderata.
Il cervello, per natura biologica, tende a risparmiare energia. È un meccanismo ancestrale di sopravvivenza: evitare sovraccarichi cognitivi permette di essere pronti ad affrontare imprevisti. Tuttavia, questa spinta verso la rapidità (dominata dal Sistema 1) non è sempre la via più efficace, specialmente nei contesti lavorativi complessi.
Quando affrontiamo decisioni in ambiti professionali, cerchiamo spesso di costruire un percorso logico, uno schema razionale per dare coerenza alle nostre scelte. Eppure, nonostante le buone intenzioni, molti dei nostri comportamenti sono guidati da automatismi, impulsi e percezioni inconsapevoli.
Il libro “La buona logica” (di Paolo Legrenzi e Armando Massarenti, Raffaello Cortina Editore), per esempio, aiuta a riflettere sull’evoluzione del pensiero umano e su come, anche senza esserne pienamente consapevoli, applichiamo costantemente schemi logici al nostro agire. Comprendere questi schemi è il primo passo verso una maggiore consapevolezza decisionale, al netto dell’economia cognitiva di cui ci ha parlato Kahneman.
Fermarsi o agire? Il dilemma del tempo
Come esseri umani, siamo naturalmente portati ad andare veloci: è il risultato di un tratto adattivo atavico ma al giorno d’oggi è anche un rischio. Essere consapevoli di questo impulso è il primo passo per imparare a gestirlo.
Fermarsi – senza però bloccarsi – ci aiuta quindi a non dare nulla per scontato; tuttavia, anche la riflessione ha i suoi limiti: un eccesso di analisi può portare all’analysis paralysis. Ecco perché è fondamentale imparare a darsi dei limiti entro cui decidere.
Mettere dei paletti e fissare un timing con sè stessi è fondamentale, soprattutto perché i limiti possono derivare dalla situazione contingente o dalle scadenze temporali: il tempo è spesso l’elemento dirimente.
Una delle frasi più comuni nelle organizzazioni è proprio questa: “Non c’è tempo”. E per larga parte è vero: le pressioni sono forti, il mercato impone ritmi serrati e spesso le risorse sono limitate. Tuttavia, bisogna interrogarsi: davvero non c’è tempo? Oppure, a volte, non ci si prende il tempo necessario?
Ci sono momenti in cui è giusto trovare una via di fuga rapida, affidandosi al Sistema 1, specialmente in situazioni di emergenza o quando l’esperienza ci guida con sicurezza.
Molto più spesso, però, è essenziale fermarsi, riflettere, coinvolgere altri punti di vista, attivando il Sistema 2 e quindi la nostra capacità critica.
Spendere 10 minuti in più su una decisione può sembrare un costo ma invece può essere un investimento: ci fa risparmiare tempo, energie e risorse nel medio e lungo termine.
A chi spetta però calibrare queste possibilità?
Il ruolo del manager e del collaboratore nel decision making
Nel contesto lavorativo, i manager sono spesso chiamati a prendere decisioni ad alta responsabilità. È parte integrante del ruolo dirigenziale: assumere rischi, definire strategie, orientare il lavoro degli altri.
Tuttavia, il confronto con i collaboratori può essere una fonte preziosa di insight: chiedere opinioni non significa infatti delegare la decisione ma aprirsi a prospettive diverse che possono rafforzare, correggere o migliorare la scelta finale. Potremmo dire che, agendo in questo senso, si va ad attivare una forma di intelligenza collettiva che il buon manager saprà riconoscere e utilizzare a vantaggio di tutti.
Anche i collaboratori, sebbene operativamente abbiano meno potere decisionale, sono chiamati a decidere ogni giorno: come organizzare il lavoro, come relazionarsi, come gestire una difficoltà. È importante riconoscere che tutti possono essere agenti di decision making.
Fondamentale è chiarire sin da subito il proprio obiettivo. Dove voglio arrivare? Qual è il mio contributo? Quali strumenti ho a disposizione? Spesso, la chiarezza iniziale si ottiene chiedendo consigli a colleghi più esperti, provando a fare piccole scelte individuali o confrontandosi (anche con i superiori) per esplorare prospettive nuove.
È evidente che le decisioni diventano più complesse e impattanti man mano che aumentano le responsabilità. Un impiegato può decidere tempi o modalità operative; un team leader definisce obiettivi di gruppo; un dirigente delinea strategie con ricadute su decine o centinaia di persone ecc…
Il processo decisionale, quindi, si adatta in funzione del contesto e del livello di responsabilità ed è proprio per questa ragione che il decision making non è una competenza statica ma dinamica, evolutiva e situazionale.
E allora, da manager o come collaboratore, in che modo possiamo mettere a frutto le nostre migliori intenzioni nel fornire un contributo rilevante al fine del Decision Making?
Bisogna iniziare a comprendere come funzioniamo.
Decisione vs buona decisione… e gli ostacoli invisibili
In qualità di professionisti della formazione, crediamo profondamente che il vero obiettivo non sia solo prendere una decisione ma prendere una buona decisione.
Una buona decisione non è necessariamente quella “giusta” nel senso assoluto ma quella che, data una certa situazione, consente di raggiungere l’obiettivo con gli strumenti più efficaci e idonei.
Per farlo, è essenziale sviluppare consapevolezza di ciò che accade dentro e fuori di noi. Siamo infatti costantemente condizionati da bias cognitivi: distorsioni mentali che alterano la percezione della realtà. Ne parleremo più approfonditamente in un secondo momento, nei prossimi mesi, ma è importante iniziare a riconoscerli per gestirli.
Molti errori decisionali derivano infatti da bias inconsci: il bias di conferma (cercare solo informazioni che confermano ciò che già pensiamo), l’effetto ancoraggio (farsi influenzare eccessivamente dal primo dato disponibile) o il bias dell’avversione alla perdita (preferire non perdere piuttosto che guadagnare).
Una buona decisione, quindi, è anche una decisione “ripulita” per quanto possibile da questi condizionamenti. Non possiamo eliminarli completamente ma possiamo imparare a riconoscerli, limitarli e compensarli con strumenti adeguati.
Nella realtà organizzativa, non esiste una formula magica o un algoritmo perfetto per prendere decisioni. Ogni scelta è unica, dipendente dal contesto, dalle persone coinvolte, dal tempo a disposizione e dalla cultura organizzativa.
Tuttavia, esistono strumenti e modelli che possono aiutare a prendere decisioni migliori ma nessuno di questi sostituisce il ruolo della persona.
Decision making e comunicazione: una scelta d’approccio da allenare
Prendere una decisione, infatti, non è solo definire cosa fare ma anche come farlo. Possiamo affermare che si tratta di una sorta di atto di comunicazione: esattamente come per il linguaggio, uno stesso concetto può essere espresso con toni diversi, stili differenti e ottenere effetti molto diversi.
Il decision making è dunque, prima di tutto, una scelta di approccio. In questo senso, il parallelismo con la comunicazione è illuminante: non basta avere un messaggio chiaro, bisogna anche saperlo veicolare nel modo giusto, al momento giusto, con il giusto stile.
Proprio in quanto atto profondamente umano, il decision making può essere allenato: non è solo una funzione cognitiva ma è anche tanta intuizione e razionalità, velocità e riflessione, responsabilità e relazione.
In quanto tale, non è appannaggio esclusivo dei vertici aziendali ma una competenza trasversale che riguarda ogni lavoratore.
Specifici percorsi di formazione aiutano ad imparare a prendere buone decisioni e quindi a imparare a conoscersi, ad ascoltare, a prendersi il tempo necessario (quando possibile), ad assumersi la responsabilità delle proprie scelte e ad accettare anche il rischio di sbagliare.
I progetti di sviluppo professionale e personale, in questo senso, possono fare molto: certamente non per dare risposte preconfezionate ma piuttosto per aiutare le persone a farsi le domande giuste, nel momento giusto. Perché, come in ogni processo autenticamente umano, la chiave non è decidere sempre bene, ma decidere meglio.