Anche in Italia si è parlato del fenomeno definito “Great Resignation“: negli ultimi 3 anni, l’ondata partita dagli Stati Uniti ha interessato il nostro paese, con numeri inizialmente in crescita esponenziale e poi più contenuti.
Cosa è accaduto al tessuto produttivo italiano? Quali fasce di età hanno fatto sì che si parlasse di Grandi Dimissioni anche qui? E soprattutto, come possono operare le aziende affinché il personale non scappi?
Le risposte a queste domande sono molteplici, multisfaccettate e certamente affatto conclusive: il fenomeno, sebbene ad oggi in calo, resta caratterizzato ma una varietà di situazioni che non sono state ancora sondate del tutto, sebbene siano state condotte ricerche su scala planetaria.
Iniziamo dunque dai dati oggettivi italiani, acquisiti da INPS tramite il suo Osservatorio sul precariato: nel primo semestre 2022 sono state ben 3.322.000 le cessazioni volontarie del rapporto di lavoro.
Il numero, benché evidentemente alto, di per sé potrebbe voler dire poco, se non fosse che apprendiamo dallo stesso studio che l’aumento delle dimissioni rispetto al 2021 è stato del +36%.
Questo sì che chiarisce meglio quanto il fenomeno sia stato importante.
Per capirne di più, sono stati analizzati i contratti a tempo indeterminato, a tempo determinato, in somministrazione, in apprendistato, stagionali e intermittenti. E, tra questi, il dato che certamente desta maggior attenzione è quello sulle cessazioni volontarie di lavoratori con contratto a tempo indeterminato: parliamo di un +31% rispetto a inizio 2021, per un totale di più di 1 milione di persone.
Abbiamo quindi incrociato i dati raccolti dall’Associazione Italia Direzione del Personale: si segnala che si tratta in maggioranza di giovani tra i 26 e i 35 anni, residenti nel Nord Italia e impiegati in aziende.
I possibili motivi delle Grandi Dimissioni in Italia
Continuando ad analizzare lo studio dell’Osservatorio sul precariato dell’INPS, emerge che le ragioni della scelta di dimettersi sono essenzialmente cinque:
- ricerca di maggior gratificazione economica (46%);
- desiderio di migliori opportunità di carriera (35%);
- motivi di salute fisica o mentale (24%);
- volontà di cercare un lavoro in linea con le proprie passioni (18%)
- voglia di maggior flessibilità di orari lavorativi (18%)
La possibilità di dare più di una motivazione a chi ha partecipato alla ricerca tratteggia un quadro dai contorni abbastanza chiari: è in atto una sorta di “ribellione interna” personale che porta a mettere in discussione conquiste anche importanti, in favore di un ipotetico benessere individuale e interiore più “alto”.
Lo starter iniziale
La prima considerazione da fare è che il fenomeno negli ultimi mesi sembra essere rientrato: ad oggi, il trend di dimissioni volontarie è costantemente in discesa, attestandosi progressivamente ai soliti livelli del passato.
Difficile stabilire con certezza cosa può essere accaduto, tuttavia da più parti – a livello mondiale – gli psicologi del lavoro teorizzano che il clima di generale smarrimento causato anzitutto dalla pandemia da Covid19 abbia minato certezze e stabilità acquisite.
Questo ha comportato un ripensamento della vita, andando ad analizzare con maggior introspezione la propria condizione di lavoro (reale o percepita), la prospettiva di crescita futura, la possibilità di continuare o meno a lavorare in smart working (per alcuni vissuto come migliorativo, per altri come alienante).
Infine, un dettaglio di cui spesso non si tiene conto è che una certa percentuale di persone hanno risparmiato molti soldi durante le varie fasi di lockdown (non potendo più viaggiare, mangiare fuori ecc…) e ciò ha comportato una certa facilità nel lasciare il posto di lavoro, pur senza avere già una nuova alternativa, potendo contare su un gruzzoletto immediatamente disponibile.
Insomma, alla base di questo fenomeno così globale e generazionale sembra esserci la considerazione di sè, della propria salute e delle proprie aspirazioni, al di là del concepirsi in un ruolo lavorativo specifico.
Cosa fanno le aziende?
Come già accennato, ad oggi il trend sta avendo una parabola discendente, tuttavia l’occasione che si è presentata alle imprese per intavolare una riflessione è stata più unica che rara, considerando il contesto mondiale dato dalla pandemia e dalla crisi economica.
Citando ancora una volta lo studio prodotto da INPS, ci si accorge che i lavoratori si sono sentiti sempre meno coinvolti (mentalmente ed emotivamente) in azienda: si passa da un 20% della fase pre-Covid ad un 14% del 2022.
Ciò significa che la forza lavoro ha avvertito una disaffezione rispetto ai valori aziendali, non sentendosi valorizzata né inclusa.
Ed è proprio su questo punto che è possibile agire, collocando la legittima soddisfazione dello staff al centro del ripensamento su condizioni di lavoro e well-being: in effetti, le aziende che hanno investito sulla formazione di manager e personale (con ricadute su incentivi, spirito di condivisione di obiettivi e gratificazione delle persone) hanno visto una riduzione del turn over e un maggior coinvolgimento di tutte le parti.
Dal nostro punto di vista, aver accompagnato diverse imprese negli ultimi anni su percorsi formativi personalizzati ha contribuito a rafforzare la cultura dell’organizzazione, con ricadute positive per tutte le parti.
Un piano di employee engagement che veda in campo adeguate retribuzioni, senso di comunità, motivazione in ciascuno e opportunità di crescita consente di far maturare ed evolvere il dipendente insieme all’azienda, portando un risultato complessivo soddisfacente per tutti.
Ogni realtà presenta criticità, sfide e allo stesso tempo ganci per migliorarsi, nella direzione di un well being che abbatta il tasso di dimissioni e incrementi la volontà di apportare valore nell’ambito in cui si opera: DevOnD può essere l’alleato giusto per sviluppare questa propensione.