Negli ultimi anni (almeno 3 o 4), il concetto di leadership gentile ha fatto irruzione nelle aule di formazione aziendale, nei programmi di sviluppo manageriale e nei piani strategici di grandi imprese. L’espressione — fino a pochi anni fa quasi assente nella letteratura organizzativa — è oggi sulla bocca di molti: la leadership gentile viene proposta alla stregua di una competenza, una soft skill.
Tutto ciò merita una riflessione, per più di un motivo. Anzitutto, ci si chiede se stiamo assistendo davvero a un’evoluzione o è piuttosto un campanello d’allarme.
Soprattutto, viene da chiedersi: “perché ora?”.
Il fatto stesso che si debba specificare il bisogno di gentilezza nella leadership ci rivela che qualcosa, in passato, forse è stato omesso, trascurato o dato per scontato.
Posta in questi termini, sembra quasi che la leadership si sia progressivamente sganciata dalla sua dimensione umana, relazionale, diventando sempre più orientata al risultato, alla prestazione, all’efficienza. Dunque, una leadership “muscolare”, assertiva, direttiva – che a lungo è stata celebrata come vincente – rischia oggi di rivelarsi inadatta ma soprattutto insostenibile.
Partiamo allora da un ragionamento di base: “gentile” cosa significa? Vuol dire ascoltare? Vuol dire comunicare con colleghi e team con garbo e rispetto? Vuol dire tenere conto delle esigenze altrui?
Sono domande semplici, apparentemente retoriche. Eppure, oggi più che mai, occorre porsele con serietà. Se questi comportamenti – ascolto attivo, rispetto, comunicazione empatica, valorizzazione – sono ciò che definiamo “gentilezza”, viene spontaneo chiedersi: tutto ciò non dovrebbe essere già connaturato nel concetto stesso di leadership?
Cos’è e chi è un/a leader, se non colui o colei che guida un gruppo avendo cura delle persone, delle relazioni e dei risultati?
Se la gentilezza è diventata un attributo “aggiuntivo”, da esplicitare e sottolineare, forse qualcosa si è incrinato nella visione che abbiamo della leadership. E forse qualcosa si è rotto, più in profondità, nel tessuto delle nostre organizzazioni, nella cultura del lavoro e nell’intera società.
Verso il paradigma del “leader custode”
Tra i promotori di questa riflessione, vorremmo menzionare Guido Stratta, Direttore People & Organization del Gruppo Enel, che circa 4 anni fa ha iniziato a esplicitare una visione della leadership centrata sull’ascolto, sulla valorizzazione del potenziale umano, sulla creazione di spazi non giudicanti.
Secondo Stratta, il leader è colui che tiene insieme tre elementi fondamentali: il risultato, la motivazione e il benessere del team.
Non c’è leadership efficace che non sappia gestire anche le emozioni, orientare il gruppo verso un senso condiviso, nutrire il dialogo autentico.
Stratta parla di “spazio di ascolto non giudicante”, in cui le persone possano entrare con le loro passioni e punti di forza. Questo spazio non è un’utopia, né un privilegio: è una necessità organizzativa perché solo dove c’è ascolto, può emergere innovazione; solo dove c’è fiducia, può nascere responsabilità; solo dove c’è cura, può svilupparsi collaborazione autentica.
Il tempo dell’ascolto e il tempo dell’urgenza
Ci chiediamo allora perché questo spazio sembri così difficile da costruire oggi.
La risposta, in parte, forse sta nei tempi e nei ritmi delle organizzazioni contemporanee: il tempo del leader stesso – oltre che dei collaboratori – è sempre più frammentato, richiesto e conteso.
Al manager viene chiesto di rispondere con rapidità, talvolta anche in assenza di tutte le informazioni, sotto pressione. La cultura dell’urgenza — alimentata dalla tecnologia, dalle logiche di mercato e dalla competizione interna — erode lo spazio per l’ascolto, per il confronto e per la riflessione.
Estremizzando: si privilegia (o comunque si richiede) sempre più spesso la risposta immediata, il “fare” rispetto al “capire”.
E invece, sappiamo bene che l’ascolto richiede tempo, esattamente come la cura delle relazioni e quindi la costruzione di un clima di fiducia e sicurezza psicologica.
La leadership gentile, quindi, si pone in controtendenza rispetto a una cultura organizzativa centrata sulla prestazione individuale e sulla velocità: è una proposta/necessità di cambiamento, che impone di ripensare anche i tempi e gli spazi del lavoro.
Il falso mito della leadership autoritaria
Sul piano sociologico, questa emergenza di “gentilezza” come valore da recuperare può essere letta anche come reazione a un contesto sociale sempre più egocentrico.
La leadership tradizionale, intesa come esercizio del potere e del controllo, si sposa bene con una società in cui l’affermazione dell’io prevale sulla costruzione del “noi”. “Prima io”, “Fai come dico io”: sono frasi che, sebbene inaccettabili in teoria, riecheggiano ancora in molte culture aziendali, più o meno implicitamente.
La storia della leadership è stata a lungo dominata da modelli autoritari o carismatici, in cui il leader era l’unico depositario della verità, della visione e delle decisioni. Questo approccio ha prodotto successi in contesti altamente gerarchici o in fasi emergenziali ma ha mostrato tutti i suoi limiti in contesti complessi, dinamici, incerti — come quelli attuali.
In questo frangente, la gentilezza viene fraintesa come debolezza, l’ascolto come perdita di tempo, l’empatia come optional.
Il risultato è una povertà relazionale che genera sfiducia, conflitti latenti, disimpegno. Sembra quasi che ormai, in alcuni contesti, si parli per primeggiare e non per costruire insieme. Si ascolta per rispondere e non per capire.
È il trionfo della reattività sull’intenzionalità.
Se tutto ciò è disfunzionale nei rapporti familiari, amicali, di coppia, scolastici e relazionali in senso lato, lo è a maggior ragione nelle organizzazioni: un’azienda non è un’arena, né un campo di battaglia, bensì un sistema umano e in quanto tale necessita di equilibrio, dialogo e reciprocità.
La leadership gentile, al contrario, parte dal presupposto che il potere non si esercita sulle persone, ma con le persone.
Il leader non è colui che ordina ma colui che orienta. Non impone, ma ispira. Non controlla ma si fida. È un cambiamento profondo, che richiede un lavoro su di sé: consapevolezza, gestione delle proprie emozioni, capacità di ascoltare anche il dissenso.
La gentilezza come strumento di sostenibilità
C’è anche un altro tema emergente che collega la leadership gentile a una questione più ampia: quella della sostenibilità. Le persone oggi sono più consapevoli dei propri bisogni, dei propri limiti, delle proprie aspettative. Il mito del sacrificio totale per il lavoro, dell’eroe aziendale che non dorme mai, è in crisi. E non è un caso che il burnout stia diventando uno dei problemi più diffusi nei contesti lavorativi, soprattutto tra manager e professionisti.
Una leadership non gentile – che ignora i bisogni del team, che spinge oltre i limiti, che antepone il risultato al benessere – non è più sostenibile né per l’individuo, né per l’organizzazione e neppure per la società.
Per questo serve una riprogettazione del bilanciamento tra vocazione e impegno, tra vita personale e lavoro. E in questo ripensamento, il leader gioca un ruolo cruciale poiché essere un leader gentile non significa abdicare al ruolo decisionale anzi, al contrario, richiede grande forza e chiarezza.
Il buon leader è infatti anche colui che sa illustrare i vincoli, i limiti entro cui ci si può muovere. Attenzione ad un dettaglio: questi vincoli non devono essere pensati né proposti come gabbie per schiacciare le persone, bensì come strumenti per organizzare meglio il lavoro.
Sono confini che, se gestiti con cura, permettono alle persone di esprimersi, di agire con autonomia e al tempo stesso di contribuire in modo autentico.
Il leader gentile, quindi, è anche un facilitatore della cooperazione, in modo che non si competa contro gli altri ma al massimo con sé stessi, per migliorarsi.
Il leader diventa un “coach” che accompagna, che riconosce, che incoraggia e questa non è debolezza: è forza relazionale.
La gentilezza diventerà autenticità?
Resta un interrogativo centrale: come siamo arrivati al punto in cui dobbiamo insegnare la gentilezza? Quando questa qualità — che dovrebbe essere la base della convivenza umana — è diventata qualcosa da riscoprire, da inserire nei manuali, da allenare nei corsi di formazione?
E ancora, una domanda per indurre una riflessione ancor più profonda: siamo davvero pronti a far evolvere la leadership gentile da “moda del momento” a cultura aziendale e personale autentica? O rischia di diventare un’etichetta, una strategia di facciata, utile solo per il branding aziendale o per i bilanci di sostenibilità?
La gentilezza autentica non è performativa: non si esercita per ottenere qualcosa in cambio ma perché si crede profondamente che non possa esserci leadership senza umanità.
È una risposta matura a una crisi di senso e di relazione che attraversa il mondo del lavoro. È una proposta di futuro in cui i leader non siano supereroi ma esseri umani capaci di prendersi cura, di costruire significato e di far fiorire il potenziale altrui.
Se oggi dobbiamo riflettere sulla leadership gentile è perché, forse, abbiamo trascurato troppo a lungo la gentilezza come competenza chiave del vivere insieme. Però la buona notizia è che possiamo rieducarci a essa, perché solo una leadership umana sarà in grado di affrontare le sfide di un mondo sempre più interdipendente, fragile e bisognoso di cura.