Oggi Daniela Chichota, Managing Director di DevOnD, incontra Fabrizio Faraco, innovator coach, strategist, facilitatore e formatore. Visto il suo alto livello di expertise sul tema dell’Agile (molto in voga negli ultimi anni), abbiamo voluto un confronto con lui per fare chiarezza e aiutarci a capire meglio cosa significa e cosa comporta per un’azienda avvicinarsi ad un approccio Agile.
Ciao Fabrizio, tu sei un facilitatore, formatore e consulente che supporta le aziende nello sviluppo dell’innovazione…da cosa parte la tua analisi dei bisogni?
Ciao Daniela! Parto sempre facendo una domanda “cattiva”: “che risultato vuoi ottenere alla fine dell’intervento?” Spesso il cliente, infatti, non si chiede ciò che vuole ottenere veramente come risultato finale, per me invece è proprio questo il punto di partenza: “Cosa vuoi ottenere?”. Inoltre, porre questa domanda è utile anche per valutare se ciò che il cliente chiede è realistico e il tipo di risorse che è disposto ad investire.
Facciamo un esempio: voglio rinnovare la camera di mia figlia e chiedo ad un imbianchino di ridipingerla, ma il budget è basso e posso dare solo una latta di vernice. Ovviamente non è possibile verniciare tutte le pareti con una sola latta, perché sarebbe sufficiente solo per una parete. Allora è necessario dichiarare subito il bisogno finale (rinnovare la stanza) e i mezzi di cui si dispone per raggiungerlo (una latta di vernice), in modo da trovare la strategia migliore per ottenere il risultato desiderato. Per esempio, utilizzare la latta di vernice non per dipingere solo una parete ma per fare una bella greca lungo tutto il perimetro in modo che la stanza sia rinnovata rispettando allo stesso tempo il budget a disposizione.
Quindi parto sempre dal risultato che si vuole ottenere proprio perché attraverso questo si capisce cosa ha in testa il cliente.
Negli ultimi anni si parla molto Agile. Quali sono concretamente le opportunità e il valore aggiunto per le aziende nell’uso dell’approccio agile?
L’agilità non è né una procedura né una metodologia, ma è un approccio che, come dice il Manifesto Agile (consultabile da tutti sul sito www.agilemanifesto.org), considera solo quattro elementi:
- gli individui e le interazioni più che i processi e gli strumenti
- il software funzionante più che la documentazione esaustiva
- la collaborazione con il cliente più che la negoziazione dei contratti
- rispondere al cambiamento più che seguire un piano
ovvero, fermo restando il valore delle voci a destra (processi, documentazione, negoziazione e piano) si considerano più importanti le voci a sinistra (gli individui, il software funzionante, la collaborazione, la risposta al cambiamento).
Aiutaci a capire meglio….
Vuol dire che noi agili lo siamo sempre stati, prima e dopo la grande illusione, permettetemi di dire americana, secondo cui attraverso l’organizzazione puntuale del lavoro si poteva semplificare la complessità. Parliamo di quel periodo che inizia più o meno negli anni 50, quando gli Stati Uniti ricoprivano il ruolo di paese guida e leader del mondo, con la loro famosa managerialità e divisione del lavoro e che termina intorno al primo decennio del 2000, nel momento in cui si è avuto modo di toccare con mano e di dimostrare quanto sia necessario invece gestire la complessità in maniera agile. Per rispondere quindi alla tua domanda: il principale valore aggiunto dell’utilizzare l’approccio agile è l’opportunità di fronteggiare la complessità.
Mi riesci a fare degli esempi concreti?
Certo! Ad esempio, la gestione dei progetti o il project management è ciò che in qualche misura ha impersonificato questa illusione americana, soprattutto nel momento in cui si pensa che un piano sia la soluzione. Se il contesto è semplice ti puoi permettere il lusso di prendere le decisioni con calma e se non hai nel tuo mercato i cosiddetti “cigni neri” o cose imprevedibili, il piano è tuttora un’ottima soluzione.
Quando però vivi in un mondo complesso in cui il futuro è imprevedibile, in cui quello che hai fatto in passato non è detto che possa essere riutilizzato in futuro, in cui nessuno ha tutte le risposte, non c’è un esperto su tutto, in cui quello che hai imparato ti serve come base e hai comunque necessità di continuare ad imparare, allora abbiamo bisogno che tutti diano la loro risposta per avere un ventaglio di possibili soluzioni, tra cui magari c’è quella più importante. La complessità sta proprio nel fatto che non c’è una risposta a tutto e l’agilità serve ad affrontare questa complessità preparandosi ad un mondo imprevedibile sia dal punto di vista personale, come leadership agile, sia dal punto di vista organizzativo, in termini di strategie.
Pensate alle organizzazioni di oggi, penso a voi di DevOnD ma potremmo dire la stessa cosa anche aziende più grandi, in cui le decisioni ormai sono prese dagli individui in diverse parti del mondo con problemi che non sono ovunque uguali. Ecco che quindi c’è bisogno di decisioni allineate con commitment, dove il commitment è la decisione volontaria di agire in autonomia. In un tale contesto un piano non servirebbe a niente perché nel tempo in cui ti invio il piano, il tuo bisogno è già cambiato. Mentre serve capire qual è la ragione per cui stiamo facendo quello che stiamo facendo, capire insieme dove stiamo andando (decisioni allineate) e farlo a prescindere dal fatto che ci sia qualcuno che ci dice di farlo.
Ok i pro ci sono e ci piacciono. E di contro…quali possono essere i limiti? L’approccio agile ha qualche punto di attenzione su cui è bene soffermarsi affinché funzioni?
Sicuramente ci sono dei contro. Uno su tutti, sottovalutare le competenze e la maturità necessarie affinché un approccio agile sia pienamente efficace. Se si vuole utilizzare un approccio agile bisogna costruire un ambiente sicuro in cui la gente decida, in cui ci sia quindi autonomia, maestria e uno scopo condiviso.
Vi faccio un esempio tratto da un bellissimo testo, Turn the ship around di David Marquet.
Un capitano di sottomarini si trova a dover guidare un sottomarino diverso da quelli che lui conosceva. Per studiare come governare un oggetto complesso come un nuovo sottomarino ci sarebbero voluti anni, ma lui aveva solo sei mesi di tempo prima della partenza. Si è quindi rivolto all’equipaggio che si è proposto di gestire il sottomarino in autonomia. Il capitano dopo un’iniziale titubanza ha capito che lasciare l’autonomia alle persone che conoscevano il sottomarino meglio di lui era la cosa migliore da fare.
Garantire che ognuno sia in grado di prendere una decisione in autonomia e si responsabilizzi è un processo lungo che si basa su due elementi principali:
- Una leadership legata all’intento, non agli ordini. Non bisogna dire al collaboratore quello che deve fare ma la ragione per cui si sta facendo una determinata cosa e lui da solo troverà la soluzione, con iniziativa (non vogliamo più proattività nelle ns organizzazioni?).
- Un coaching e un training continuo, non a chiacchiere, ma vero e quotidiano. Da una parte si deve fare in modo che le risorse siano tecnicamente abili (tornando al sottomarino, se è il momento di immergersi, è necessario verificare che sia tutto ok e l’equipaggio deve avere le competenze tecniche per valutare), dall’altra si deve fare in modo che le risorse sappiano valutare se quello che si sta facendo è effettivamente la cosa giusta. Ci vuole quindi anche un coaching vero e proprio in cui si definisca chiaramente qual è lo scopo del nostro lavoro per consentire una reale autonomia alle persone.
Quindi in questo senso il limite potenzialmente grave è di non rendersi conto che nell’approccio agile il valore sta nelle persone…
Esatto. Voler promuovere l’approccio agile senza investire nelle persone, questo è il più grande errore in cui si rischia di cadere.
Oggi a che punto siamo? L’approccio agile si è definitivamente affermato o ancora poche aziende lo utilizzano o lo utilizzano “male” appunto come stavi dicendo tu senza poi investire su sulle risorse?
Io tremo quando sento parlare di “rivoluzione agile” in azienda perché mi ricorda tanto il Gattopardo: “cambiare tutto perché nulla cambi”. Credo che la cosa più semplice sia introdurre questo approccio agile gradualmente nei vari processi, un po’ come ha fatto il capitano del sottomarino.
D’altra parte, l’esercito è un’organizzazione gerarchica e quello che lui ha deciso di fare, cioè affidare la gestione del sottomarino al suo equipaggio, lo ha fatto in autonomia, non ha chiesto il permesso a qualcuno. L’approccio agile è un approccio dal basso, agile anche in questo, cioè nel fatto che si può tranquillamente fare una trasformazione nell’ambito del proprio livello di potere.
Due grandi pensatori organizzativi, Harry Lipmanowicz e Keith McCandless, hanno sviluppato le Liberating Structures e tra queste c’è un esercizio che si chiama il 15%. Loro sostengono che l’85% di ciò che accade all’interno di un’organizzazione non dipende da noi, ma il 15% sì. Ci dobbiamo quindi concentrare su questo 15% e iniziare ad innovare da lì. Una volta prodotti risultati efficaci qualcuno intorno a noi inizierà a chiederci quali strategie abbiamo usato e piano piano le introdurranno nel loro 15%. Quindi la trasformazione partita dal 15% iniziale coinvolgerà sempre più persone e dal basso si sviluppa fino a un livello più alto. Ecco, dunque, i processi trasformativi delle persone non si fanno con uno schiocco di dita (magari fosse!)!
Quali sono infine gli elementi chiave dell’approccio agile?
Gli elementi chiave sono quelli del manifesto e ne aggiungerei qualcuno in più!
- La motivazione: l’approccio agile funziona se la gente ha commitment, quindi se è motivata. La motivazione è la chiave, la motivazione c’è se le persone pensano di contare all’interno di un’organizzazione e la motivazione è basata su maestria, autonomia e scopo.
- Lo scopo, il “perché” di Sinek, l’intento, il motivo per cui facciamo quello che facciamo.
- Un approccio iterativo. Poiché viviamo in un mondo complesso e non sappiamo neanche se gli stimoli da fuori sono quelli a cui dobbiamo rispondere, dobbiamo effettuare dei sondaggi. Esempio: se voi decidete di andare a piedi da La Paz a Manaus attraversando la Foresta Amazzonica non prendete Google Maps e andate, perché ad un certo punto vi trovereste o nelle sabbie mobili o davanti il Rio delle amazzoni che non è attraversabile. Quindi, cosa fate? Fate un passetto alla volta e sulla base di quello vi muovete. Quel passetto alla volta consente di avere i dati per fare il passo successivo; quindi, ci vuole appunto un approccio iterativo.
- L’attenzione alle persone e la condivisione dei valori che sono:
- si lavora insieme ma individualmente;
- le discussioni sono tangibili (quindi post-it, modello lego, un foglio di carta scritto, non parole al vento);
- è importante partire, perché la soluzione giusta non ce l’ha nessuno. Quindi, è inutile porsi il problema su quale sia la scelta giusta perché tanto non sappiamo se lo sia;
- non c’è un reparto creativo a cui rivolgerci, quindi tira fuori la tua idea! Potresti pensare che non sia quella giusta, ma mettila sul tavolo così dai un contributo, e magari era proprio quello che stavamo cercando.
- Infine, un concetto di governance che garantisca da una parte che l’intento sia chiaro e condiviso, e dall’altra che la maestria delle persone che lavorano nel team sia possibile, attraverso coaching e training.
Per chiudere: un suggerimento da dare a un’azienda, ad un manager, ad un team che si vuole avvicinare all’approccio agile
È fondamentale partire dal risultato e tornare indietro facendo una sequenza di 5 risultati. Perché 5 e non 6 o 4? Perché 5 sono le dita della nostra mano e il nostro cervello è portato a lavorare in blocchi da cinque.
Una volta che si ha questa sequenza di risultati, bisogna gradualizzarla rispetto a quanto è complesso il contesto e quanta competenza serve e quindi lavorare all’interno di quello che si chiama Flow o Teoria del flusso ottimale, teorizzata dallo psicologo ungherese Mihály Csíkszentmihályi. Tutti i processi creativi avvengono quando il nostro cervello sta nel flusso ottimale. Vi è mai capitato, quando leggete un libro, che magari arrivate a pagina 15 a fatica e state per abbandonarlo, ma poi da pagina 16 partite e vi divorate il libro? In quel momento voi siete andati in flow, cioè vi siete dimenticati della fatica e del tempo. Ecco quello è un processo fortemente creativo.
Quindi partire dal risultato, definire la sequenza di risultati e trovare le soluzioni da parte di tutti nella conoscenza tacita. La conoscenza tacita è quella per cui imparare ad andare in bicicletta non si ottiene leggendo manuali d’istruzione o guardando il giro d’Italia, ma si impara praticando e sbagliando. È quella che abbiamo tutti noi e che tiriamo fuori ogni volta che dobbiamo affrontare un problema.
Per fare questo dobbiamo rompere un primo vincolo: la discussione inizia quando tutti hanno espresso il proprio punto di vista e soprattutto si deve considerare che il proprio punto di vista è in qualche misura uguale per tutti. Affinché questo accada c’è bisogno di un po’ di competenze e il modo più semplice per iniziare ad acquisirle è di andare sul sito delle Liberating Structures (www.liberatingstructures.com) e provare a familiarizzare con questi strumenti. Si tratta di microstrutture di facilitazione che permettono di innescare la partecipazione all’interno dei gruppi. Sono semplici da utilizzare e non hanno bisogno di un facilitatore. Messe in sequenza, ognuna su uno dei cinque risultati ci portano al risultato finale. Certo, se si coinvolge un agile coach o un facilitatore di DevOnD è meglio perché ci insegna come costruire in autonomia sequenze di facilitazione, ma se si vuole iniziare a fare pratica può essere un buon punto di partenza per valutare poi il coinvolgimento di un esperto.
Daniela: Grazie Fabrizio!
Fabrizio: Grazie a te!
Se ti è piaciuta l’intervista a Fabrizio, visita il suo sito web e scopri molto di più su di lui e sul suo lavoro!